Sei davvero chi credi di essere?

“Tu sì che sei Autentica!”
Da giorni mi frulla in mente questa frase, sentivo di dover scrivere qualcosa in merito, ma non sapevo bene cosa, come prenderla, come declinare le sensazioni che queste parole mettono in moto dentro di me.

Ho un modo tutto mio di pormi sulle questioni importanti, lascio che mi scavino dentro fino all’osso prima di lasciarle trapelare… Eppure stavolta c’era qualcosa di diverso. Una roba talmente grande da non riuscire a trattenerla, né quantomeno a conoscerla perché mi trovavo davanti sempre un muro grigio.

Questa del muro grigio è carina, ma te la spiego tra poco…

Spesso mi sono sentita rivolgere questa affermazione: “Tu sì che sei Autentica!”, il che mi ha sempre lasciata perplessa, perché non ne capivo la reale portata.

Ma stranamente mi faceva riflettere, e tanto! Sono davvero così autentica?

Onestamente non lo so. So che nella mia vita difficilmente riesco a restare dove non mi sento bene, se c’è qualcosa che stride io semplicemente me ne vado.

Dietro quel semplicemente in realtà c’è un mondo. Perché mica è così facile per me andarmene. E questa è un’altra questione, su cui torno dopo, perché magari interessa anche te.

Quello che da qualche anno a questa parte mi domando è proprio questo: “Quanto ci comportiamo in modo autentico, ma veramente autentico, nel quotidiano? Quanto invece di quello che diciamo, facciamo, addirittura pensiamo, è in un certo modo frutto di qualcosa di esterno?”

Pensaci…

Una delle sfide più grandi con cui mi sono trovata a confrontarmi quest’anno è quella di essere una madre.

È una dimensione con cui, sebbene sia diventata madre fisicamente da quasi quattro anni (psicologicamente, spiritualmente ed energeticamente sono quasi sette anni ma questa è un’altra storia che magari racconterò un’altra volta) ancora fatico un po’ ad abitare.

Nel prendere confidenza con questa nuova dimensione di me, nel capire in che modo e con quale ritmo danzare con mia figlia, ho imparato a non dare per scontato nulla, soprattutto i conflitti.

Mia figlia è una di quelle bambine che per certi versi possono essere definite “problematiche”. Detti in altri termini (ossia in adultese): spesso è una piccola rompi scatole, o come mi piace definirla una Nilmerg (che sarebbe una Gremlin al contrario perché si trasforma in una piccola demone se non le do da mangiare al primo accenno di languorino, o se non mi rendo conto che ha sonno).

Non è una di quelle bambine del “dove la metti sta”, neanche una di quelle che “non la senti e non la vedi”... No no, lei prima la senti, e poi la vedi, e di sicuro non te la scordi.

Da persona che per anni sono stata avvolta nel mantello di Harry Potter, a volte volontariamente, questa cosa mi crea qualche piccolo disagio, in primis perché il mio amato silenzio è quasi sempre un lontano ricordo, in secondo luogo perché mi obbliga ad espormi, anche visivamente, e non è una dimensione che a me piace particolarmente.

Però nel corso di quest’anno, mentre mi confrontavo con pediatra e maestre su come agevolare la transizione di mia figlia in una persona che conosce e rispetta le norme sociali di base, mi sono spesso fermata a dirmi: “Ma non staremo a fa’ una cazzata?”

Sì, la Sora Lella che è in me ogni tanto s’affaccia e mi parla, però il punto è proprio questo: se da un lato sono la prima a promuovere un approccio empatico e rispettoso dei bisogni altrui, dall’altro mi trovo spesso a limitare e contenere l’espressione emotiva di mia figlia.

E questo mi fa riflettere davvero tanto!

Perché noto quanto gli schemi patriarcali (spiegare adesso con due parole cosa intendo con questo è un po’ riduttivo e molto probabilmente fraintenderai quello che dico, ma ci provo), che non hanno niente a che vedere con gli uomini, ma che riproducono un sistema sociale basato sulla disuguaglianza e sulla prevaricazione di alcune persone su altre, siano talmente interiorizzati dal produrre situazioni del tipo in cui se una persona ti ferisce e provi a starci male, e a dirlo, ti sentirai rispondere: “Ah beh io sono così, se ti va bene ti va bene, se ti offendi te la pigli in saccoccia”

E qui si aprirebbe un’altra parentesi enorme, grande almeno quanto un altro elefante, ecco perché vedo tutto grigio.

Comunque, la mia alquanto superficiale impressione, è che anche nel momento in cui si professa di portare avanti un discorso del tipo: “Viva l’empatia, viva l’ascolto dei bisogni” in realtà sia un po’ più una cosa del tipo: “Io posso, tu no”.

Ecco, in questo quadretto, essere cresciuta con il nobilissimo principio del “la tua libertà finisce dove inizia la libertà di qualcun altro”, la mia libertà rischia di diventare minuscola, se non sto attenta a mettere dei paletti belli grossi.

Adesso tutto questo, cosa c’entra con l’autenticità?

C’entra eccome, perché la voglia di farci accettare, di sentirci amate e amati (in un’epoca in cui l’amore incondizionato è merce rara se non sconosciuta), può contribuire a farci indossare un abito che magari non è propriamente il nostro. E da qui nasce anche la difficoltà ad andarcene da alcuni posti anche se ci fanno male… quando pensiamo che l’unico vestito che possiamo mai indossare sia quello che ci stringe, in un modo o nell’altro cerchiamo di adattarci.

E non so te, ma io me lo chiedo tutti i giorni come mi ci sento dentro quei vestiti.

Sì, sarebbe bellissimo non dover rendere conto di niente a nessuno, ma non è possibile, perché viviamo in un mondo pieno di creature che meritano il nostro rispetto, almeno quanto noi meritiamo di riceverlo, per cui io me lo domando (secondo alcune persone pure troppo) come ci sto in quei vestiti…

Oh, sia chiaro, io c’ho provato a non pensarci, ma poi continuo a vedere grigio e divento curiosa, quindi mi sposto, e mi rendo conto che da lì vedo qualcos’altro, poi magari chiedo a qualche persona che mi sta accanto cosa vede, per capire se vediamo la stessa cosa… Un po’ come la storiella dei tizi bendati davanti all’elefante che ne toccano solo alcune parti senza vedere interamente cos’è, ma litigano tra di loro perché ognuno vuole avere ragione.

Ho smesso da tempo di voler insistere nel dire che quel grigio che vedo è l’unico grigio possibile, o l’unica realtà possibile.

Semplicemente so che è la MIA realtà, e quando mi scontro con mia figlia cerco di ricordarmi di fare un passo indietro e di provare a vedere dalla sua prospettiva, per capire cosa vede.

Con una bambina lo faccio, con le mie clienti e i miei clienti lo faccio, ma non è sempre facile, e soprattutto non voglio essere l’unica a farlo.

Quindi, l’invito che ti faccio, per questa estate, è di provare diverse posizioni e diversi punti di vista, a osservarti e a sentire come ci stai in quei vestiti che indossi tuo malgrado. Perché magari scopri cose interessanti.

A questo punto, normalmente, ti direi che questa è una delle cose che faccio fare a chi si rivolge a me, perché per me è un punto chiave per il BenEssere, ma questo non è un contenuto di marketing, quindi non lo farò.

Questa estate me ne starò per i fatti miei più del solito, perché sento che in questo momento è giusto così. Non è la scelta più logica forse al momento, ma di logico ho sempre fatto poco in vita mia, ora scelgo e preferisco restare dove il mio cuore non ha bisogno di corazze, né io sono obbligata a indossare abiti che mi stanno stretti… È il momento di lasciarmi cullare dal destino e me lo voglio godere fino in fondo.

Il mio augurio è che anche tu riesca a capire quali sono i luoghi in cui il tuo cuore può togliersi l’elmetto e rilassarsi, i luoghi in cui sei perfettamente al sicuro e puoi spogliarti di qualsiasi abito ti stia costringendo in questo momento, arrendendoti quel tanto che basta per cucirti un nuovo vestito che farà risaltare ancora di più il colore dei tuoi occhi.

Buona estate!

Con Amore e Grazia

Letizia
P.S. Se “cambio il mio vestito” di conseguenza anche BenEssere in Armonia cambierà… ma di questo ne parleremo a Settembre ;-)

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